"Le pagine seguono un ordine solo quando si sfogliano di
seguito. Quando il libro è chiuso, tutte le pagine sono sempre insieme e
non vanno né avanti né indietro. Sono lì e basta."
Jerusalem
è il secondo romanzo di Alan Moore. Nel suo primo romanzo, La voce del
fuoco, Alan Moore, si era concentrato nel raccontare la sua città
natale, Northampton. In un’intervista riguardante Jerusalem, Alan Moore,
ha affermato che, in quel primo libro, essersi concentrato sull’intera
città, fosse stato troppo dispersivo. Per questo, per il suo romanzo
successivo, si è voluto concentrare su un’unico quartiere di quella
città. Jerusalem parla di questo quartiere, chiamato Boroughs, il
quartiere più antico della città di Northampton. E qui mi potrei
fermare.
La prima cosa
che salta all’occhio è la mole. Jerusalem è un libro di millecinquecento
e rotte pagine. Ogni pagina è essenziale perché è un libro in cui forma
e sostanza coincidono.
La prendo un po’ alla larga.
Alan
Moore ha lasciato una traccia indelebile nella cultura di massa con i
fumetti che ha scritto. Prendendo i titoli che, forse, lo caratterizzano
di più, V for vendetta, Watchmen e From hell, si può trovare un filo
conduttore a livello formale. C’è sempre uno studio del passato per
raccontare il presente. Con V for vendetta è andato a riprendere
tematiche Orwelliane per raccontare il periodo Tatcheriano. In Watchmen
ha ripreso supereroi anni ’50 per mostrare la cultura influenzata dalla
presidenza reganiana. In From hell ha preso il serial killer per
antonomasia, Jack lo squartatore, per dissezionare la cultura del
ventesimo secolo. Il passato, e tutte le sue componenti, danno senso, o
danno parte del senso, al momento presente.
Un’altra
cosa. Anni fa mi ritrovai a pensare al fatto che un autore è facilmente
identificabile in uno dei personaggi delle sue opere. Con Alan Moore mi
sembra che questo giochino intellettuale non funzioni a pieno. Però,
anche se non lo riesco a identificare con un singolo personaggio, mi
pare che lo si possa identificare con la struttura dell’opera. Questa
struttura in V for vendetta è come uno spartito musicale che da ritmo
all’azione. In Watchmen come la gabbia della tavola a fumetti che
scandisce il tempo. In From hell la mappa del territorio che diventa
immagine di un’idea nella storia.
In Jerusalem la storia è un libro di più di millecinquecento pagine.
La forma contiene spazio e tempo.
Fin
dall’inizio ho pensato che Jerusalem fosse la summa della scrittura di
Moore. Elencando quelle tre opere precedenti mi son dato conferma. Le
tematiche le si ritrova e vengono ampliate in Jerusalem. Alan Moore ci
ha sempre parlato di come spazio e tempo siano elementi indissolubili
nella caratterizzazione di un territorio.
Ma la trama? Qual è la trama di Jerusalem?
Quando
parlo di un’opera il più delle volte non mi soffermo sulla trama.
Questo per assurdo mi porta a non dare troppo peso a eventuali spoiler.
Con Jerusalem questo vale ancora di più. La trama c’è ma va ricostruita
attivamente, passo passo, dal fruitore dell’opera.
È un romanzo che si compone di tre libri contenuti tra un prologo e un postludio che ne fanno da cornice.
Il
primo libro si intitola Boroughs come il quartiere di cui si parla. In
questa prima parte in ogni capitolo c’è il racconto di uno degli
abitanti del quartiere. L’andamento non è cronologico e l’effetto è
inizialmente straniante. Più si procede con la lettura, più ci si
accorge della rete che riunisce tutta la fauna sociale che abita le
strade di Boroughs. Ci si ritrova a ricostruire la storia del quartiere e
la storia di una famiglia, i Vernal. Questo primo libro culmina con un
bambino che soffoca con una caramella e si collegherà al secondo libro,
Mansoul.
Mansoul racconta l’esperienza oltre la
morte di quel bambino. Il racconto si fa lineare. È un’avventura dai
tratti dikensiani. Una banda di monelli fantasma con la missione di far
tornare in vita il bambino. Tra demoni, giganteschi arcangeli che si
prendono a cazzotti, viaggi nel tempo e tanto altro ancora, Moore riesce
a illustrare teorie scientifiche sullo spazio-tempo e a filosofeggiare
sul determinismo. Tutto questo per permettere la salvezza del bambino
che porterà alla terza parte, L’inchiesta dei Vernall.
Con
il terzo libro la scrittura si fa ancor più caleidoscopica. Ogni
capitolo presenta una forma diversa: dal flusso di coscienza derivativo
di Joyce al testo teatrale che omaggia Beckett. Tutto questo non è
sterile citazionismo. Ogni forma letteraria è cristallizzazione di una
visione della realtà, o irrealtà, unica e riconoscibile. La forma è
funzionale al contenuto. Ogni luogo, ogni personaggio, è collegato a
quel momento in cui la trama culmina.
Fino
a ora ho evitato di dire una cosa. Sto facendo molta fatica a scrivere
di questo libro. A parlarne, nessun problema, chi mi conosce lo sa bene,
ma a scriverne? Non ce la faccio proprio.
Quindi riporto la prima cosa che mi viene in mente e poi la chiudo.
È
un aspetto che ho notata alla fine della seconda lettura di Jerusalem
ed è legato direttamente al suo autore. Per lo meno all’idea che me ne
sono fatto.
Alan Moore si prende la responsabilità
di quel che fa. L’ha fatto si dall’inizio della sua carriera quando ha
deciso di dedicarsi alla carriera di fumettista nonostante i pochi mezzi
di sussistenza e una figlia in arrivo. L’ha fatto in ambito
supereroistico quando, dato che un mercato cannibale ha estetizzato solo
il lato più superficiale di Watchmen, scambiando la violenza per
maturità, e lui, in controtendenza, si è dedicato a opere più solari e
positive.
L’ha fatto anche con Jerusalem, forse,
come risposta al suo primo romanzo. Ne La voce del fuoco Alan Moore si
abbandonava alla descrizione fin troppo onesta di una realtà cupa e
spietata. Jerusalem, non rinuncia al racconto di questa stessa realtà,
anzi, per certi versi, affonda ancor di più nella critica sociale, nella
denuncia di una politica storicisticamente ingiusta, in un razzismo
perpetuo. Ci mostra tutto questo ma non si ferma a uno sterile
compiacimento. Jerusalem è la sua azione per combattere tutto ciò.
Jerusalem non è un libro ottimista ma è un libro attivamente positivo.
L’arte è la soluzione, la cultura è la via.
Si dice
sia stato un Idiota ad aver detto che il Mondo lo salverà la bellezza.
Jerusalem è quell’atto di bellezza che Alan Moore ha plasmato in un
tempo eternamente presente.
"Prima
o poi, tutte le persone e i luoghi che amiamo cesseranno di esistere, e
l’unico modo per preservarli è l’arte. È la sua funzione, recuperare
ogni cosa nel tempo."
"Spero che stia bene. Spero che stiano tutti bene."