13 Novembre 2022By

Regia: Nobuo Nakagawa |
Anno: 1960 |
Nazionalità: Giappone |
Produzione: Mitsugu Okura |
Durata: 101 min |
Voto 5 su 5
Jigoku è, con altissime probabilità, il primo film Gore della storia.
E se non è il primo, di sicuro è quello più importante che dà il via non solo a una nuova visione del cinema horror, ma del cinema in generale.

In Giappone Jigoku è una sorta di Sacro Graal, ha una rilevante importanza cinematografica oltre che culturale e questo perché, anche se a distanza di anni, ha contribuito a rendere il Giappone, la nazione più "prolifica" filmicamente parlando.

Se esistono perle quali "Sexual parasite" o "Dead sushi", il merito è di Jigoku. E non perché le sceneggiature sono simili, anzi, non ci azzeccano proprio nulla tra di loro, ma per la capacità di osare nel raccontare qualcosa di assurdo e regalare allo spettatore una visione onirica della realtà.

Persino nei manga, l’influenza di Jigoku è notevole, basti pensare a "La casa degli orrori" di Uchiyama, un’opera che fa del grottesco/horror la sua raison d’être.

La trama del film si può articolare in due parti, una prima parte che funge da palcoscenico per i personaggi, dove oltre alla loro introduzione, trova spazio il filo conduttore dell’intera pellicola, il peccato. La seconda parte invece è l’inferno, nel vero senso della parola, da cui ogni peccatore non ha scampo ed è un tripudio di violenza ed un’esplosione di colori.

L’inferno Dantesco è il precursore delle future visioni orrorifiche e non, una sorta di genesi vouyeristica al contrario, sapeva già che l’avrebbero guardata in tanti. Da Jarmusch con "Dead Man" (per me tra i film più belli con Johnny Depp), a Von Trier con "La casa di Jack".
Il Giappone però è sempre stato un passo avanti a tutti, e se con Onibaba aveva già provato a ricreare qualcosa che gli si avvicinasse, Nakagawa con il suo Jigoku lo "rivoluziona", grazie alla sua interpretazione dell’estetica del mondo infernale.
La prima parte, contraddistinta da una forte morale e che come già scritto, è dedicata alla presentazione dei personaggi, Nakagawa è una sorta di Virgilio che ci tiene per mano, ci spiega tutto, a volte in maniera anche goffa/grottesca. La carota prima del bastone in sostanza.
Anche come per dire, non aver paura del peccato finché sei in vita, preoccupati di essere peccatore dopo che sarai morto. Ciò che fa consapevolmente, è proiettare lo spettatore prima nel cerchio della vita, poi in quello della morte.
Questa "separazione" netta si nota non soltanto per il secondo atto, ma per lo splendido uso della fotografia "colorata".
Per dare ancora più importanza alla sua visione infernale, lo rende ancora più "colorato" a differenza della prima parte, in cui si parla di vita, dove la fotografia sembra natura morta, spenta, acida. Con l’arrivo dei peccatori, l’inferno di colora e c’è più vita di quanto ce ne fosse sulla terraferma. Il rosso, il colore del peccato per antonomasia; il verde per dare un lieve accenno di speranza che quel mondo infernale sia soltanto un brutto sogno; ed il blu che non rappresenta la serenità del cielo, ma bensì le anime peccatrici che risalgono nel cielo nero e cadono a terra privati della loro linfa vitale, divenendo pietra, sulla quale gli altri peccatori si appoggiano per un breve istante.
È poesia, infernale magari, ma pur sempre poesia. Una seconda parte amorale, dove davvero "lasciate ogni speranza voi ch’entrate", perché non esiste pietà ma solo dolore e sofferenza dove il sangue è come un fiume in piena che trascina tutti verso il fondo.

E forse per la prima volta nella storia del cinema horror, il Gore non è "solo" un sottogenere, ma il protagonista innovatore di visioni future. Probabilmente anche Eli Roth ringrazia.

Voto: 5 birilli. Cult assoluto!

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