13 Novembre 2022
La trama del film si può articolare in due parti, una prima parte che funge da palcoscenico per i personaggi, dove oltre alla loro introduzione, trova spazio il filo conduttore dell’intera pellicola, il peccato. La seconda parte invece è l’inferno, nel vero senso della parola, da cui ogni peccatore non ha scampo ed è un tripudio di violenza ed un’esplosione di colori.
L’inferno
Dantesco è il precursore delle future visioni
orrorifiche e non, una sorta di genesi vouyeristica al contrario, sapeva già
che l’avrebbero guardata in tanti. Da Jarmusch con "Dead
Man" (per me tra i film più belli con Johnny Depp), a Von
Trier con "La casa di Jack".
Il Giappone però è sempre stato un
passo avanti a tutti, e se con Onibaba aveva già provato a ricreare
qualcosa che gli si avvicinasse, Nakagawa con il suo Jigoku lo
"rivoluziona", grazie alla sua interpretazione dell’estetica del
mondo infernale.
La prima parte, contraddistinta da una forte
morale e che come già scritto, è dedicata alla presentazione dei personaggi, Nakagawa
è una sorta di Virgilio che ci tiene per mano, ci spiega tutto, a volte
in maniera anche goffa/grottesca. La carota prima del bastone in sostanza.
Anche come per dire, non aver paura del
peccato finché sei in vita, preoccupati di essere peccatore dopo che sarai
morto. Ciò che fa consapevolmente, è proiettare lo spettatore prima nel cerchio
della vita, poi in quello della morte.
Questa "separazione" netta si nota
non soltanto per il secondo atto, ma per lo splendido uso della fotografia
"colorata".
Per
dare ancora più importanza alla sua visione infernale, lo rende ancora più
"colorato" a differenza della prima parte, in cui si parla di vita,
dove la fotografia sembra natura morta, spenta, acida. Con l’arrivo dei peccatori, l’inferno di colora e c’è più
vita di quanto ce ne fosse sulla terraferma. Il rosso, il colore del peccato
per antonomasia; il verde per dare un lieve accenno di speranza che quel mondo
infernale sia soltanto un brutto sogno; ed il blu che non rappresenta la
serenità del cielo, ma bensì le anime peccatrici che risalgono nel cielo nero e
cadono a terra privati della loro linfa vitale, divenendo pietra, sulla quale
gli altri peccatori si appoggiano per un breve istante.
È poesia, infernale magari, ma pur sempre
poesia. Una seconda parte amorale, dove davvero "lasciate ogni speranza
voi ch’entrate", perché non esiste pietà ma solo dolore e sofferenza
dove il sangue è come un fiume in piena che trascina tutti verso il fondo.
E forse per la prima volta nella storia del cinema horror, il Gore non è "solo" un sottogenere, ma il protagonista innovatore di visioni future. Probabilmente anche Eli Roth ringrazia.
Voto: 5 birilli. Cult assoluto!
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